Lo scorso fine settimana sono stata a Roma con mio figlio. Sono rimasta stupita di come ricordasse perfettamente la strada per arrivare a casa di Gustavo. “Mamma, ma non ricordi? Appena dopo il terremoto abbiamo fatto avanti a dietro per quasi un mese!”
Ho avuto un tonfo. Non l’avevo dimenticato, più semplicemente accantonato.
E così ho voluto rituffarmi in quel periodo: viaggiavamo, io e i miei figli. Dormivamo a Roma e la mattina, via! Tutti a L’Aquila. A ritrovare gli amici, a parlare con tutti, nelle tendopoli, da chi capitava, a portare pane, olio, coperte. Dopo pochi giorni uno dei miei figli veniva con me all’Università e mi aiutava. Rispondeva ai telefoni impazziti, parlava con tutti gli studenti che ci raggiungevano e, come me, dava notizie a tutti tramite la connessione wireless di Coppito 1. Solo un giorno rimanemmo a Roma, a comprare biancheria intima per alcuni amici disperati in tendopoli.
Poi comprammo il camper e ci stabilimmo a L’Aquila, con l’energia elettrica fornita da mio fratello, davanti alla sua abitazione.
Questi ricordi sono fatti soprattutto di sensazioni, di sentimenti, di quel che si provava. Quello che ricordo come sentimento predominante è il sentirsi tutti uguali, solidali. Non ricordo nessun altro periodo della mia vita nel quale così tanta gente mi è apparsa simile. Per quanto fosse doloroso, era emozionante e liberatorio parlare con tutti. Era una spinta propulsiva, che ci permetteva di lavorare, di resistere e continuare, almeno sperare di farlo.
Oggi L’Aquila è diversa: non già perché è di nuovo tutto a posto! Anzi, i problemi sono ancora qui, tutti, alcuni sono divenuti giganti, ad altri ci siamo assuefatti.
La L’Aquila di oggi ha perso quello spirito, quella “comunione”, quel sentirsi tutti uguali. E piano piano siamo sprofondati nelle divisioni, in quello che ci allontanava prima che la catastrofe arrivasse.
Non riesco ad estraniarmi e ad avere una visione oggettiva. L’unico modo che ho è ricordare come eravamo appena dopo il passaggio di quei “trentotto” secondi.
Il dolore forte ci faceva sentire fragili, ci appoggiavamo l’uno all’altro. Il vuoto ci risucchiava e noi ci aggrappavamo a qualsiasi tenue cordicella si intravvedesse. Ricordo che all’Università ci abbracciavamo e aiutavamo. Persino le riunioni del Senato accademico erano caratterizzate da calma e voti unanimi!
Ora c’è il caos: la città giace ancora fredda, la nostra vita scorre frenetica e dolorante, ma quella “comunione” non c’è più.
Forse per questo vivo male, perché mi sento più sola, in una città che non esiste, ma che si divide. Una città che non comunica, che si arrabatta a sopravvivere. Sui giornali le nostre voci sono sostituite da freddi comunicati stampa e sciocchi battibecchi. Attacchi da tutti i fronti, parole vuote, clima elettorale, volgarità.
Non so, penso che se ritornassimo indietro tutti, stasera stessa, a quei “trentotto” secondi, assieme potremmo ripartire, anche se 309 persone non potranno farlo.
Da lì, proviamoci. Ad essere meno egoisti, meno fatalisti.
Più forti, più gentili.
Il fatto che un bambino abbia nella mente cose più nitide è perché le depura, è una fortuna essere bambin* almeno una volta nella vita, è davvero bello poi connettersi con loro come hai fatto te in quel frangente di recupero per te stessa di una memoria che è triste, Dovremmo provare tutte/i ad essere quello che consigli, purtroppo però l'individualismo è un must, è diventato un codice di comparizione, grazie per questo tuo bellissimo blog e per questo post in particolare.
RispondiEliminaPer mesi non ho scritto in questo tuo luogo, avevo paura di scrivere, avvicinarsi al dolore altrui, e alla GIUSTA rabbia altrui è sempre difficile, poi ho pensato io anche vivo la sua rabbia, su altri fronti, probabilmente potrei scrivere, quindi grazie ancora.
Grazie a te
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