martedì 7 luglio 2015

Le mie prime cento cime







Monte Amaro della Majella (2793 m)


Vado in montagna da quando ero bambina e con mio padre ho imparato a conoscerla. La prima volta che andai al Velino, dovevo avere 13/14 anni, mio padre mi svegliò alle 3.30 del mattino e non so che cosa avrei dato per rimanere al letto. Ma glielo avevo promesso, così mi alzai nel pieno della notte. Per le prime tre ore di cammino, da Rosciolo, non facevo altro che pensare a come sarebbe stato bello essere nel mio letto. Ci fermammo al fontanile del Sevice, bevemmo, mangiammo qualcosa, e continuammo. Arrivati sul Sevice, che io credevo fosse il Velino, mi si stagliò davanti una piramide nera ed io chiesi: «Cos’è quello, papà?». E lui: «Il Velino». Per un attimo credo di averlo “odiato”. Ma poco dopo mi ritrovai a correre verso la vetta, lasciando indietro tutti gli altri che arrancavano. Quando raggiunsi la cima sentii una sensazione per me nuova e la scrissi sul registro di vetta. Non ricordo cosa scrissi, ma da quel momento divenni “la scrittrice ufficiale dei registri di vetta”. 

In realtà non si andava per vette, ma ne raggiunsi alcune. Molte del Velino-Sirente, altre del Parco Nazionale d’Abruzzo. Non so dire con precisione quante volte ho scalato il Velino, o il Bicchero, o il Monte Viglio o Pizzo Deta, o ancora quante volte ho fatto colazione al Lago della Duchessa o al rifugio di Forca Resuni, alla grotta delle Fate, ai Tre Confini, o sulla Meta. 

Dopo i miei 23 anni, le escursioni si diradarono: lo studio, il lavoro, poi il matrimonio e i figli mi allontanarono da una forte passione. 
La ripresi 15 anni fa condividendola con l’uomo che da allora mi sopporta, di origini umbre e un’adolescenza sui monti Sibillini. 

Da allora abbiamo scalato il Corno Grande, almeno una volta l’anno, così il Pizzo Cefalone, e le montagne del Centenario. Sempre, ogni anno, al lago della Duchessa, a Colle dell’Orso, Val Maone, il Sirente, la Val di Teve,  che da soli appagano. 

Da due anni ho preso a collezionare vette appenniniche sopra i duemila metri. Più che un gioco lo definirei un obiettivo. E pian piano ho conosciuto davvero i monti dell’appennino centrale. Non solo il Gran Sasso e il Velino- Sirente, ma anche i monti della Laga, i Sibillini, la Majella e il Parco Nazionale D’Abruzzo.
La mia prima escursione per collezionare cime fu sui Monti Ernici-Simbruini dove, dopo una salita bella e lunga, per circa 4 ore rimasi in cresta, oltre i duemila metri, e raggiunsi cinque cime. Non l’avevo mai fatto: la sensazione fu stupenda, come volare.
Così ho continuato a concatenare cime e a volare. 

Ho volato sulle alte cime del Velino, sorvolando i Piani di Pezza, Campo Felice, tutte le valli percorse da bambina, i rifugi, i boschi; poi sulle cime della Laga, planando su prati verdi, laghi, cascate e fiori; sulle Montagne del Parco Nazionale d’Abruzzo, accompagnata dal bramito dei cervi e dal rumore dei tuoni lontani; sui monti Simbruini sbirciando la mia terra natia, la Marsica; infine alla Majella, che mi ha rapito, volavo sul mare.

In molti mi chiedono quali siano le montagne più belle ed io rispondo: «Tutte». 

Il Velino mi riporta indietro nel tempo, quando ero bambina, il Corno Grande è possente, la cresta del Monte Corvo è lunghissima, quella del Gorzano è un prato verde, dal Pizzo di Sevo il panorama è mozzafiato, sul Costone conto le cime che ho percorso, il Sirente è il balcone d’Abruzzo, il Cagno lo vedo dalla finestra di casa, la cima dello Scalone sorvola stazzi immensi, il Terminillo mi fa scoprire un Gran Sasso diverso, del Cefalone mi piacciono le “roccette”, della cresta del Morrone la vista sul Lago della Duchessa, dal Monte Tremoggia mi è parso di vedere la Croazia e potrei continuare per tutte le 101 cime che ho raggiunto.

Non ho vinto nulla se non il titolo di “Medio Appenninista” del Club2000. Per conquistare quello di “Grandissimo appenninista” dovrei scalare altre 142 montagne. Non posso arrivarci, perché alcuni percorsi, anche se non sono alpinistici, non fanno per me. Arriverò fin dove i miei limiti me lo permetteranno.
L’importante è volare.
E poggiarsi sulla luna (in foto il mio allunaggio sul Monte Amaro della Majella)

lunedì 16 marzo 2015

Un mondo di plastica (prima puntata)





 


Ho deciso di inaugurare una rubrica a puntate dal titolo “Un mondo di plastica”, perché credo sia necessario mantenere la memoria di come era il mondo prima che divenisse polimerico.
Sarò ogni volta molto breve perché so che i post lunghi non li legge nessuno

Sono nata nel 1957 e il primo ricordo che ho di me e mia madre risale al 1959-60. Ero caduta accidentalmente fratturandomi la gamba, che mi fu ingessata. La mia memoria rievoca l’immagine di mamma che mi faceva giocare a “capare le lenticchie” porgendomele sul seggiolone, di legno. Quello stesso seggiolone che fu di mio fratello maggiore e passò poi ai miei successivi 3 tra fratelli e sorelle. A corredo di questo ricordo ci sono anche le mie lacrime e urla quando vidi una  mezzaspecie di motosega con la quale un infermiere,  grande e grosso,  mi tagliava il gesso sulla gamba. Mia madre, per farmi ridere, mi diceva che dentro il gesso avevano trovato una manciata di lenticchie.
Di giocattoli, poi,  la memoria mi restituisce un triciclo, rosso, interamente di metallo, anche il sellino: era stato già dei miei cugini e di mio fratello.
La mia era una famiglia non ricca, ma agiata, tuttavia, pensate un po’, non si sprecava nulla e si riciclava il riciclabile: giocattoli, vestiti, scarpe e tanto altro.
Insieme alla mie sorelle mi vantavo di avere un armadietto per gli abiti delle bambole del tutto simile a quello per i nostri vestiti: era di legno, smaltato di rosso. Sulla neve si usava lo slittino di legno.

Ho anche ben presente che prima di passare al bagnetto settimanale nella vasca da bagno, mia madre mi (ci) lavava in una bagnarola metallica smaltata e, a riguardo, un mio neurone ha conservato ancora una volta le mie lacrime e urla di quando mi sciacquavano i capelli, con il capo riverso all’indietro. Anche mio figlio aveva la stessa reazione isterica allo sciacquo del capello, da cui ho dedotto che la genetica è come la matematica, non è un’opinione. 

Le bottiglie che dei miei tempi di bambina erano tutte di vetro:  quelle del vino, delle bibite (gassosa o spuma) e tutte venivano riciclate. Il vuoto era a rendere.  Si cominciò a non renderlo tutto  quando ci dotammo del “tura bottiglie” – quello per i  tappi a corona- e cominciammo ad usare le bottiglie delle bibite per la conserva di pomodoro.
Papà comprava il vino nei fiaschi e una volta finito, li riportava indietro vuoti. A casa si beveva poco: solo mio padre un bicchiere di vino a pasto e, anche durante le feste, non si stappavano fiumi di alcol. Una mia zia, l’unica non astemia, beveva qualche bicchiere durante le feste e la si considerava un po’ strana in questa sua abitudine anche se, vi assicuro, beveva assai meno di  tante persone di oggi, compresa me.

L’acqua in bottiglia, rigorosamente di vetro,  esisteva ma la bevevano solo i malati: ricordo l’acqua Fiuggi e più in là la Ferrarelle. A me non piacevano. Talvolta si comprava l’idrolitina che serviva a fare le bollicine nell’acqua, per farci contenti. Le bottiglie vuote si riportavano al negozio.

In questo puzzle di rievocazioni appare improvvisamente  qualcosa di plastica: si tratta di una bagnarola, bianca. Dovevano essere i primi anni sessanta.  Era arrivato il Moplen.
Moplen è stato il marchio registrato di una nota materia plastica, il polipropilene isotattico,  un polimero del propilene, un derivato delle lavorazioni degli idrocarburi.
Il nuovo prodotto fu sintetizzato  negli anni cinquanta da  Giulio Natta e l'invenzione gli  valse il Premio Nobel per la chimica nel 1963. Con un tempismo incredibile, pochi anni dopo la scoperta,  a Ferrara venne inaugurato il primo impianto per la produzione di polipropilene che produsse in un anno le prime 10 mila tonnellate. Questa plastica venne salutata da tutti come un’invenzione utilissima, come infatti fu, e le case degli italiani si colorarono di secchi, stoviglie, giocattoli indistruttibili.
Quello fu il primo cambiamento che negli anni si riflesse sulla vita di tutti noi.
Il testimonial della campagna pubblicitaria dl Moplen era il grandissimo Gino Bramieri, nel video.

Fine prima puntata



venerdì 13 febbraio 2015

Ho voglia di


Sono felice di ospitare una poesia della mia amica Clelia Scirri. Una donna di Tempera. Una donna terremotata. Una poetessa.

"Tempera-Paganica" di Lasacrasillaba - Opera propria.
Con licenza CC BY-SA 3.0 tramite Wikimedia Commons -



Ho voglia di paese,
delle sue strade anguste
che ti abbracciano,
dove si affaccia
la tua gente di sempre
che ti informa e ti racconta.
Ho voglia di case,
delle finestre socchiuse
da dove lo spiraglio
di profumi si espande.
Ho voglia di piazza
dove i ragazzi rumorosi
rincorrono una palla,
dove un cane randagio accasato
sta fermo tranquillo a guardare.
Ho voglia, col sole d’estate,
delle ombre allungate
del suono delle campane,
di coccodè di galline lontane.
Ho voglia di rose fiorite
A ridosso dei muri,
di aulenti balconi
con gerani e petunie.
Ho voglia di vedere
anziani e bambini vicini,
seduti a godersi il tepore,
fuori, sugli ultimi gradini.
Ho voglia di orme frettolose
Lasciate sulle viuzze innevate,
dell’odore buono del fumo
e delle voci ovattate.
Ho tanta voglia del mio paese
mentre osservo
la neve che cade!

venerdì 16 gennaio 2015

Uomini e donne



Non so da dove cominciare lo sfogo, quindi inizio dalla fine.
E la fine sono Greta e Vanessa, le due cooperanti liberate ieri sera e riportate in Italia dalla Siria. Non le conosco e non ho alcuna intenzione di cominciare una difesa ad oltranza delle loro vite e del loro lavoro.
Ma, purtroppo, ieri ero sul web ed ho letto giudizi ed epiteti irripetibili, a migliaia e decine di migliaia. Il fastidio è cresciuto a dismisura, tanto da rendermi persino insonne. Perché? La verità è che di attacchi di questo genere ne ho già sentiti: alla Boldrini, alla Bonino, alla Moretti, alla Bindi, alla Serracchiani e, per non far torto a nessuno, anche alla Carfagna. Che io ricordi a nessun uomo è stato mai riservato lo stesso trattamento. 

I marò, se non eroi, sono al più mercenari; Salvini, sbeffeggiato a ripetizione, al più è responsabile della laurea del trota, Renzi un bimbominkia, Vespa un viscido. Mai agli uomini ci si rivolge con espressioni ed epiteti a sfondo sessuale, mai. Tranne a Berlusconi, ma solo perché a lui piace.

Ho pensato cosa si sarebbe detto se Vanessa e Greta fossero state uomini. Per caso avremmo criticato il loro modo di vestire, di pettinarsi, avremmo detto “stanno meglio col velo”, “chissà se hanno goduto”, avremmo sezionato le loro espressioni ipotizzando sorrisetti ammiccanti? Ci sarebbero sembrati sprovveduti, cretinetti, pulzelli, viziati? Avremmo consigliato di stare a casa a fare la calzetta, li avremmo derisi, avremmo loro suggerito luoghi ‘idonei dove mostrarsi”, li avremmo chiamati “amici delle siriane”?  E vi ho risparmiato le volgarità, sono irripetibili. 

Non so chi esattamente siano Vanessa e Greta, ma lotterò tutta la vita per far in modo che le donne possano andare in Siria e tornare senza vergognarsi. 

Cercherò di far capire a tutti che questo maschilismo strisciante non è migliore di altri.

P.S. Nel frattempo qui a L'Aquila siamo a 2111 giorni dal terremoto