giovedì 28 giugno 2012

Raccolta D.I.F.F.E.R.E.N.Z.I.A.T.A.





Da quando sto nel progetto C.A.S.E. (a Cese di Preturo), con grande soddisfazione riesco a differenziare tutti i rifiuti:
  •  Organico
  •  Plastica
  •  Carta
  • Vetro 
  •  Indifferenziato
In realtà, poi, siccome non mi pesa affatto differenziare anche alluminio, ferro e polistirolo, settimanalmente metto tutto  in una busta e lo porto a Roma, dove questo materiale si può conferire in cassonetti per la raccolta del multi-materiale. In questo modo la frazione indifferenziata è minima, in volume, e anche leggerissima.
Poi mi vengono un sacco di dubbi.
  1.   Perché gli altri non riescono a differenziare e, soprattutto, perché strappano i cartelli che io affiggo con indicazioni, suggerimenti eccetera?
  2. Come mai non ci viene più distribuito il calendario che, molto diligentemente ci avevano fornito nel 2009? Il calendario è utilissimo specialmente per il conferimento della frazione umida. Abbiamo, infatti solo un piccolo bidone di plastica che non riesce a contenere l’umido prodotto da circa 20 famiglie, con il risultato che, senza un calendario, ognuno (specie d’estate) porta nel bidone il suo sacchetto quando vuole. Quello rimane lì per qualche giorno, intanto il bidone straborda e di notte arrivano animali (cani, gatti ecc.) e fanno “pasquetta”.
  3.   Come mai non è chiaro a tutti che per l’organico bisogna usare sacchetti appositi? Una volta lo chiesi all’ASM che chiarì che abbiamo tutti firmato un foglio nel quale si specificava che la prima fornitura di sacchetti era stata effettuata porta a porta, finiti quelli dovevamo andare a ritirarli presso la loro sede. Ora a parte che nessuno lo sa (almeno nel mio palazzo), io, sinceramente, sto adoperando quelli biodegradabili del supermercato perché quelli forniti dalla municipalizzata sono piccolissimi, si rompono con una facilità estrema e, per di più, non sono a misura del cestino da loro stessi fornito.
  4. Prima del sisma i rifiuti “che non sai dove buttare”, anche piccoli elettrodomestici, telecomandi, pentolame eccetera, io li portavo alla piattaforma di Pile. Oggi i punti di raccolta non ci sono, bisogna chiamare il numero verde che provvede a smaltire i rifiuti. Anche questo in molti non lo sanno, così vicino ai bidoni c’è di tutto; tutto tutto eh!  Per di più alla domanda “Dove butto le lampadine a basso consumo?” mi è stato risposto (al numero verde): “Nell’indifferenziata, signo’!”. 
  5.  Perché non si è approfittato della situazione “quasi-ideale” dei progetti C.A.S.E., per avviare una raccolta differenziata che poteva funzionare davvero bene? Certo anche i cittadini devono cooperare, ma se ieri aprendo il bidone dell’umido (con una puzza che non potete immaginare dato che sul fondo giace da almeno due settimane un percolato che fa orrore), ho provveduto a togliere un sacchetto di quelli biodegradabili dentro cui c’erano piatti e bicchieri di plastica sporchi. Siccome imprecavo,  una mia vicina me ne ha chiesto il motivo. Dopo la spiegazione,  mi ha confessato che i piatti sporchi monouso (che usa poco, per fortuna) regolarmente li butta nell’organico giustificandosi “un po’ di carta ci può andare, no?”. E in più usa i sacchetti normali “Perché gli altri si rompono!”.
Dunque: chiedo che anche nei progetti C.A.S.E. si facciano degli incontri educativi, che si distribuiscano sacchetti biodegradabili idonei,  specificando se si possono usare anche quelli dei supermercati e soprattutto un calendario RIGIDO. Sarebbe utile mettere manifesti esplicativi  sotto le “famose piastre” e spingere affinché tutti imparino. Dopo 3 anni per me risulta impossibile conferire tutto assieme in un unico sacchetto.
Aiutateci a divenire una città eco-compatibile.
La foto che vedete all’inizio del post, sono i bidoni del mio palazzo: come vedete ci sono giocattoli di plastica, ingombranti,, stendini per i panni, un piccolo secchio, vicino al cassonetto giallo per il conferimento della plastica. Bene leggete qui: i giocattoli non possono essere conferiti nel bidone giallo, men che meno componentistica per automobili! Se la gente non lo sa occorre farglielo sapere! Magari anche attraverso un sito web leggermente migliore, con dati aggiornati sulla raccolta rifiuti!
Chiedo inoltre che vengano al più presto emanati i regolamenti di condominio in maniera tale che si capiscano bene i diritti e i doveri; per esempio che sarebbe a carico del condominio la pulizia dell'area cassonetti, dei bidoni e dei giardini dell'area condominiale che, al momento non si capisce chi deve fare!

P.S.: per chi non lo sapesse ancora: quando differenziate carta e cartone Non inserite la carta nelle buste di plastica ma direttamente nel contenitore”.

martedì 19 giugno 2012

Sfogo



Questo post è un po’ uno sfogo. D’altra parte spesso questo blog per me è stato terapeutico, quindi nulla di nuovo.
Come sapete sono aquilana e anche fiera di esserlo. Tuttavia i natali me li ha dati Avezzano a 50 chilometri dall’Aquila, di cui conservo tanti ricordi e dove vive parte della mia famiglia. L’Aquila l’ho scelta. Forse all’inizio anche abbastanza inconsciamente, ma qui sono vissuta, in mezzo a questi monti e a questa gente. E a dirla tutta, un po’ estranea mi sono sentita sempre, sia qui che ad Avezzano. E penso che capiti a tutti quelli che nella vita vagano. 

Poi esiste il provincialismo, un coacervo di significati, nessuno dei quali mi piace. E’ infatti un dispregiativo che indica  arretratezza culturale, chiusura mentale, conformismo, caratteri che si ritengono propri della provincia eccetera. Ed esiste anche il campanilismo, cioè la strenua difesa dei valori di un territorio che sfocia in spirito di rivalità, anche molto accesa, con i centri vicini.
E diciamocelo, succede ovunque, per intenderci anche al Nord!
Poi ci sono gli stereotipi quelli secondo i quali, ad esempio, i marsicani (ossia  gli abitanti della Marsica, terra dove sono nata) sono degli “ignorantoni” e invece gli aquilani “colti”, i marsicani “aperti”, gli aquilani “chiusi”. E siccome frequento ambedue le popolazioni a volte mi sento dire: «Oddio, t’è venuta la puzza sotto il naso, come tutti gli aquilani!», oppure «Come sei dura, proprio una marsicana purosangue!». Non mi sono mai avventurata a spiegare che ho anche sangue umbro e, forse, persino calabrese, altrimenti immagino i commenti.
Io sono quella che sono. Se qualcuno mi chiede «Di dove sei?», io rispondo «L’Aquila». Senza alcuna ombra di dubbio. Così se me lo chiedono della mia cara amica Luana (nata a Lanciano) o se mi chiedono di dove sono alcune mie cugine acquisite, dico «di Avezzano», anche se sono nate e vissute per un po’ in Sicilia. E, in tutta sincerità, nella Marsica non fanno tutte queste differenze, anche se, ovviamente, anche lì esistono i clan.
A L’Aquila invece si tiene molto all’aquilanità. Insomma è più aquilano chi a 18 anni se n’è andato a vivere altrove, che chi ci ha vissuto, pur avendo emesso il primo vagito altrove. Una sorta di protezione contro lo straniero, sicuramente anacronistica, ma abbastanza radicata.
Per cui spesso, se non hai i natali d.o.c. puoi arrivare fino ad un certo punto, poi è meglio che ti fermi. 

Quello che sto scrivendo, lo so, è pericoloso, molti aquilani mi criticheranno, perché non è un aquilano a dire queste cose, ma una di fuori. Un po’ come quando qualcuno ci parla male di un parente stretto e ci offendiamo: noi possiamo dire ciò che ci pare, ma gli altri no. Ecco, come se la città intera fosse una grande famiglia, con cognomi precisi, conoscenze l’uno dell’altro molto approfondite e, chiunque non abbia fatto parte di questa famiglia, dei suoi asili, delle sue scuole, dei suoi salotti fin dall’inizio della sua vita terrena, fosse di un altro pianeta.
Se da un lato questo rafforza le tradizioni, rende unico il dialetto, ci fa sentire sicuri, dall’altro ci soffoca, inesorabilmente.

Come posso spiegare ad un aquilano d.o.c. che appena trasferita qui, girando per la città solo ed esclusivamente a piedi, ho passato mesi e anni a girare per tutti i vicoli, che conosco a memoria, a studiare la storia della città, dei suoi palazzi, a imbevermi della sua bellezza, a scovare le abitudini, a frequentare i posti cari alla città? Che fosse un bar, un teatro, una cantina, una biblioteca, le montagne, tutto. Credo di averlo fatto più di tanti altri.
Come posso spiegare ad un aquilano d.o.c. che ogni volta che sento parlare male dell’Università, posso testimoniare che vengono messi alla gogna quasi esclusivamente i professori che vengono da fuori? O che le esagerazioni della movida sono sempre ed esclusivamente attribuite ai fuori sede? Come posso spiegare ad un aquilano d.o.c che questi studenti, per esempio, sono legati e rimangono indissolubilmente legati a questa città? E che tanti dipendenti dell’Università si sono trasferiti, abitano in città, sono aquilani, per scelta.
Appena dopo il terremoto ho visto queste barriere aquilane liquefarsi, come per incanto. Come è naturale che sia: una catastrofe ci rende tutti uguali. Ci ha reso uguali, nel progetto C.A.S.E. lontano dal nostro gioiello e costretti a convivere su piastre e prati.
Poi, forse stremati dal post-terremoto, abbiamo rialzato queste barriere, magari perché è naturale in tanto immobilismo, richiudersi e pensare solo a se stessi. Ma ciò che ci aspetta è una città diversa, con abitanti diversi, con luoghi diversi.
Una città “policentrica” e “poliglotta” che non si può combattere, ma solo accogliere.

Chiudo questo sfogo con un episodio che mi capitò qualche anno fa: spesso a casa facevo cene memorabili con i miei colleghi universitari. Ce ne era uno in particolare di Padova, un chimico, che tutte le volte che veniva a L’Aquila rimaneva stupito di come una città così chiusa dalle montagne fosse non solo  sede di un’ Università, ma che questa fosse anche di qualità eccellente e così piena di studenti! Mi disse: «Evidentemente gli aquilani sono tutti accoglienti come te». Un altro collega, marsicano come me, rispose: «Bada bene, da tanti anni che sto qui non sono mai stato a cena a casa di un aquilano, Giusi è la prima, infatti è marsicana».  

P.S. Se leggete bene questo sfogo, vi accorgerete che parlo da aquilana.




Via Angelo Colagrande 2



Via Angelo Colagrande stamattina, 19 giugno 2012



Stamattina mi sono recata in via Angelo Colagrande (L'Aquila), insomma sono andata a casa, quella vera. Dovevo ritirare la posta.
La strada, come già detto , è in corso di rinnovamento totale: asfaltatura, allargamento dei marciapiedi e guard-rail orribili.
Arrivata sotto-casa, mi sono imbattuta in una fila mostruosa di automobili, il tutto perché parte della strada era sbarrata e, quindi, si procedeva a senso unico alternato. Mi sono cadute le braccia! Insomma che si fa, prima si asfalta e poi si buca nuovamente?
Così ho chiesto informazioni. In realtà qualcuno me lo aveva già detto un mese fa, ma io non ci avevo creduto.

La ditta che ha appaltato i lavori, ha lavorato, come dire, un po’ alla “carlona”, tanto che persino l’assessore Moroni, incavolatissimo, ha sentenziato “Non vi paghiamo!” e, stavolta, ha tutte le ragioni del mondo.
La suddetta impresa ha asfaltato la strada ricoprendo tutti i tombini, ossia sia quelli di scarico acque, provocando allagamenti, sia quelli di accesso ai sotto-servizi. I tombini di scarico, in seguito sono stati sbloccati, per il resto si è proceduto a tentoni. Insomma chi si ricordava dove era il tombino Enel lo ha segnalato e, quindi, questo veniva disseppellito. 

Giorni fa parte dei quartieri Torrione e San Francesco, sono rimasti senza acqua, per una perdita delle condutture, ma il tombino di accesso era sparito. Per poterlo disseppellire, domenica mattina si è dovuto procedere a chiedere il permesso alla ditta “asfaltatrice” perché, essendo ancora non ultimati i lavori, la burocrazia preveda quella procedura. L’asfalto nuovo, quindi, è stato smantellato nel punto dove si trovava il tombino, è stata individuata la perdita e ora sembra sia tutto a posto. Naturalmente tranne la strada. 

Una persona mi ha detto che seppellito dall’asfalto c’è ancora il tombino “Telecom” , e, badate bene, a San Francesco passa la fibra ottica ed io già pensavo ad una cablatura completa del mio palazzo. Ora spero che lo ritrovino.
In questo mio post possono esserci delle imprecisioni, perché si basa su testimonianze dirette e non verificate, d’altra parte non sono una giornalista, ma una che semplicemente inorridisce quando si scontra con persone che lavorano male.

Qualora il Comune decidesse di non pagare l’impresa che ha fatto quello scempio, non ci crederete ma io lo appoggerò senza problemi! Forse riuscendo anche a far togliere quell’orribile guard-rail.

martedì 5 giugno 2012

Trentotto mesi


Domani saranno passati esattamente 38 mesi dal sima che il 6 aprile 2009 distrusse la nostra città e tutti i centri storici del cosiddetto cratere. Mi preme sottolineare quel numero, trentotto, perché ci sono affezionata. Trentotto secondi è il titolo di un racconto che scrissi durante i primi giorni post-terremoto, in camper ed anche il titolo di questo blog. Scrivevo: “Il titolo riporta il tempo che mi sembra sia passato dal momento in cui mi sono svegliata il 6 aprile 2009, a causa del sisma che ha colpito la mia città, e l’attimo nel quale ho percepito che la scossa si affievoliva. L’ho ricostruito e ricalcolato, ripercorrendo ciò che ricordo di aver fatto quella notte. Mi dicono che la scossa principale è durata meno, ma il mio tempo è stato quello, proprio trentotto secondi. In molti hanno avuto la sensazione che la catastrofe sia avvenuta in una quarantina di secondi e, dato che la nostra percezione è quella che conta, mi sento di dire che il titolo rispecchia il nostro dramma.”
Più in là davo voce ad una speranza: “…non esiste nessun processo inverso che in 38 secondi ci riporti indietro. Questi trentotto secondi li dobbiamo dilatare e ripercorrere attraverso una nuova via per rimettere tutto in ordine. Non basteranno neanche 38 minuti o trentotto ore, neanche 38 giorni, ma forse 38 mesi ben spesi ci ridaranno un po’ di ordine.”

E siamo arrivati al traguardo: sono trascorsi esattamente 38 mesi, insomma 1156 giorni. Che sia trascorso tanto o poco tempo non lo so dire, a volte mi sembra un secolo, altre ieri.
In 1156 giorni, in 38 mesi , possono succedere tante cose: la prima che mi viene in mente, essendo docente universitaria, è che ci si può laureare; un bambino nato 38 mesi fa, ora cammina, parla e va all’asilo; in 38 mesi la mia casa poteva essere ricostruita due volte, i tempi tecnici sono, infatti, 18 mesi.

E qui comincia una storia incomprensibile. Il più prezioso immobile della mia città, non ha tempi tecnici di ricostruzione superiori a 38 mesi, nonostante questo i lavori di ristrutturazione ancora non hanno nemmeno inizio; certo c’è voluto tempo per progettare, approvare eccetera, ma evidentemente la burocrazia ha tempi più lunghi di 1156 giorni. In 38 mesi si sono costruiti alcuni immobili pubblici che, però, dopo 1156 giorni hanno ancora problemi di gestione e, quindi, sono chiusi al pubblico. Così potrà anche avverarsi un qualcosa di assurdo e cioè che un centro polifunzionale per studenti universitari, inaugurato in pompa magna, verrà aperto proprio quando gli studenti delle  Facoltà che dovrebbero usufruirne si saranno trasferiti lontano, sulla collina di Roio.
Qualcosa è andato bene, però (almeno a sentire il Commissario): pensate in “appena” 38 mesi sono state riparate le case poco danneggiate per una spesa complessiva  di 590 milioni di Euro e, finalmente, ben 34.102 persone sono ritornate in città, dopo mesi e mesi di lontananza, durante la quale tra alberghi e autonoma sistemazione si sono spesi svariati milioni di Euro e la città è rimasta vuota, persino nelle periferie. Mi domando ancora perché si è cominciato a non programmare nulla e si continui così, evidentemente abbiamo preso una brutta piega!

Vi confesso che avrei voluto scrivere tutto un altro tipo di post, anzi stavo quasi per concluderlo, quando su Facebook sono incappata in questa foto


e questo è il relativo commento:Chi ancora parla di come è stata gestita l'emergenza sisma a L'Aquila dal governo Berlusconi si deve vergognare. Dove sono tutti i "carriolanti"? Perché non vanno in Emilia a protestare contro il governo visto che il loro amico Santoro sta mandando interviste di terremotati che dormono in macchina e dicono: SIAMO SOLI!!!”

In una sola parola, quella foto la trovo deprecabile e non già perché sono aquilana, ma perché sono terremotata, come gli Emiliani. E ricordo perfettamente i primi giorni dopo il sisma, dove al contrario di quanto possa pensare l’autrice del fotomontaggio, c’era tanta gente che dormiva in auto, altrettanta in tende all’interno dei giardini: impauriti, ancora non consapevoli pienamente dell’accaduto, scioccati da tante vite spezzate. E forse dimentica le tendopoli, forse non c’è mai stata. Ricorda gli alberghi, evidentemente, come segno di lusso sfrenato che ci è stato concesso, dimenticando la sofferenza di tanti lontani dalla città, vuota, nella quale, contemporaneamente, altri decidevano, in maniera irreversibile, il destino di questo territorio.

Ma ora basta, non ho voglia di dire sempre le stesse cose,  mi rendo conto che in questi trentotto mesi io sono cambiata, tanto. Come penso sia normale dopo una catastrofe di questo genere. Così cambiata che aborro i confronti, oggi in atto ovunque, tra L’Aquila e l’Emilia, così cambiata che auguro ai miei connazionali terremotati una ricostruzione veloce, e li ringrazierò, se ci riusciranno, a nome dell’Italia tutta; sono così cambiata e ancora in cambiamento che ho deciso che butterò il mio cuore al di là di queste dannate piastre, per guardare avanti assieme ai tanti concittadini, cresciuti in consapevolezza durante questi 38 mesi. A tutti quelli che facendo autocritica ora ci sono e sono assieme, senza più scontri e individualismi né, tanto meno, con colpe da scaricare su altri. 

Io spero con tutta me stessa che tra altri 38 mesi potrò dire che sarà iniziata la mia quinta vita: quella dentro una città.

lunedì 4 giugno 2012

Il terremoto di Luca






Riprendo oggi, uno dei  racconti tratto dal mio libro "Trentotto secondi"

E' il giorno del lutto nazionale per le vittime del terremoto in Emilia e qui a L'Aquila, tra due giorni, saranno trascorsi trentotto mesi senza più quelle anime che sono andate via. 

Il terremoto di Luca:
LUCA
Chi è Luca? Luca è Luca. E’ tutti gli studenti dell’Aquila messi insieme. Luca ha sempre una parola per tutti, anche una battuta, a volte sarcastica. Luca è un giovane politico che vuole cambiare il mondo. Luca si arrabbia, Luca passa nottate intere a pensare e ripensare. Luca si arrovella. Luca partecipa a tutte le feste, sa tutto dei locali dove mangiare meglio. Un pezzo di Luca è rimasto sotto le macerie dell’Aquila. I suoi studenti, i suoi amici, i sui compagni di ventura non ce l’hanno fatta. Ma insieme a Luca L’Aquila può farcela.


E questo è il terremoto di Luca:

Ero rientrato a casa da un ora e mezza circa, una pausa davanti al televideo.
Poi al letto, scosse da 3.9 e da 3.5, meglio mettersi a letto in tuta, casomai toccasse uscire dall'immobile. Entrambi i cellulari a caricare. Nel letto, come spesso accade, decido di leggere, ancora oggi non riesco a ricordare cosa, ho dunque gli occhiali sul volto.
Leggo e mentre leggo arriva la terribile scossa. E' chiaro subito che è forte, più forte delle altre, d'istinto mi rannicchio di lato e mi copro la testa con le braccia. Non finisce, cominciano a crollare libri, armadi, salta la luce, si sente un rumore assordante, mia madre urla. Mi alzo. Cerco il telefono caduto, lo raccolgo e prendo anche l'altro. Vado dai miei, parte la seconda fase della scossa, la casa balla, sembra cedere. Riesco a far alzare i miei pietrificati, accompagno mia madre sotto l'androne della porta. Mio padre ritarda, la scossa si ferma, prendo la maglia e le scarpe, il faro. Faccio scendere i miei, li seguo e faccio luce, faccio scendere anche l'ultimo della scala.
Siamo fuori, è terrore, il palazzo è fortemente lesionato, penso subito:  il centro è venuto giù.
Penso che il quartiere tra S.Pietro - S.Silvestro - via Garibaldi - via Roma sia crollato per intero.
Tiro fuori le macchine, lascio i miei dentro una di esse: “Rimante qui, io vado in centro”.
Incredibilmente alla prima telefonata rispondono. Mauro, Paola, Alessio e la sua famiglia sono in piazza S. Silvestro. Le case crollate.
Davanti  all'Anas la prima casa venuta giù completamente. E' chiaro, ci saranno morti in città, molti morti. Salgo per via XX Settembre e si mostra la devastazione, come una Beirut sotto le bombe.
Passo davanti la casa dello studente, mi manca l'aria.
Fermo la macchina di fronte alla redazione del “Centro” (il quotidiano abruzzese n.d.r.), sul marciapiede sopra Piazzale Paoli. Urla ovunque; da piazzale Paoli sale solo fumo e polvere. Riscendo via XX Settembre. Una ragazza piangendo davanti al Girasole (pizzeria n.d.r.) urla di andare a salvare la sorella, non capisco, mi faccio indicare, li in fondo c'è casa di Elvio. In macerie, solo macerie. Le prometto di andare a cercare aiuto. Scendo ancora su via XX Settembre, Chiara mi ferma e invoca di salvare la compagna di casa, è incastrata.
Mi indica casa, alzo lo sguardo e vedo il palazzo su via dell'Orto Agrario spezzato a metà. Crollato a metà. Mi fermo sotto la casa dello studente. C'è un ragazzo al 4° piano,  mi dice dove sono gli altri ragazzi dentro, provo a capire. C'è un ragazzo che tira macerie contro la vetrata degli uffici, forse vuole provare ad entrare o ad aprire vie di fuga. Risalgo e corro a cercare i vigili. I primi che trovo, il telefono è a questo punto inutilizzabile, mi spiegano che da ovunque richiedono aiuto, ovunque chiedono soccorsi. Riesco a contattare Tino, mi dice che ai Gesuiti (altro alloggio per studenti, n.d.r.) tutto ok. Capisco che non hanno la percezione della tragedia perché mi dice che una ragazza sola si è ferita, è  scalza. Non so come dire che via XX Settembre è un campo di guerra.
Raggiungo di nuovo i Vigili, all'unico povero mezzo su via XX Settembre,  provano a fare quello che possono. Si dirigono verso la casa di Elvio. Poi scende la macchina con la scala verso la casa dello studente, Chiara ha ancora la coinquilina dentro e implora aiuto. Cominciano a scendere i ragazzi rimasti dentro, con la scala. Vado dietro S. Giusta, passo per i vicoli, molti crolli, ma i palazzi in piedi. Vado verso  piazza Duomo. E’ un continuo di scosse e cadono le macerie davanti, dietro e ai miei lati. Corro riportandomi sul Corso. Cerco con gli occhi tutti e registro chi c'è. Vedo Marino e Giorgio, vedo Fabio e Elvezio…. E’ evidente che anche in piazza Duomo, dove tutti vengono dai crolli del centro, non hanno la percezione di ciò che c'è a via XX Settembre; dico a tutti che li è macerie macerie macerie e della casa dello studente. Riscendo da via Sallustio e risalgo via XX Settembre, c'è una anziana che ha preso una macchina senza avere patente, ha sbattuto contro un albero, la faccio scendere e le dico di rimanere sul marciapiede, sposto la sua macchina. Macchine in fuga, macerie, vigili, ambulanze. Alla casa dello studente la scala dei Vigili va via, non possono entrare, devono aspettare macchine che lavorino dall’esterno. Piergiorgio è dentro e parla. Giancarlo lo sprona. Gli diciamo di attendere che li tireranno fuori. Cerchiamo di capire chi è dentro. Francesco, Angela, Davide, Alessio, e ancora altri. Non riesco a capire se Carmela è dentro. Avevo parlato con lei  su Facebook due ore prima della scossa. Chiedeva se l'università era chiusa o aperta. L'amica di Chiara l'hanno tirata fuori.
Vado verso casa di Elvio. La sorella di quella ragazza è li, sempre lì. Si scava a mano. A mano. Scendo in fondo verso Campo di Fossa e giù verso le villette liberty. Crolli. Casa di Noemi. E’ una tragedia senza fine.
Riesco a sentire Mauro che mi fa l'elenco dei ragazzi trovati, che hanno risposto etc.... aggiorno con quelli che so io, che ho ricevuto e che ho incontrato. Mancano ancora alcuni.
Manca sempre Elvio.
E la sua casa è solo macerie.

sabato 2 giugno 2012

Il Centro Storico dell’Aquila



L'Aquila e la neve


Come sapete tutti, il nostro centro storico è distrutto, puntellato e vuoto. Non vi abita nessuna. Qualche commerciante ha riaperto i battenti, quasi tutti in agibilità parziale dell’immobile. Si contano molti bar, birrerie, pub, ma anche  un negozio  di intimo, pizzerie, un ciabattino, una pasticceria, due macellerie, un negozio di pasta all’uovo e poco altro.
Il centro ci manca. L’ho detto tante volte, è  la nostra anima.

In centro quasi tutte le sere, ma soprattutto il giovedì e il sabato, si incontravano i ragazzi, quelli della movida e, come in tutte le città, c’era chi se ne lamentava: chiasso, vetri rotti, insomma un po’ troppa “esuberanza”.  Immediatamente dopo il terremoto, lungo un viale detto “della Croce Rossa” si ammassarono un bel po’ di locali e la movida si trasferì.  Ci rendemmo subito conto che a quei ragazzi bisognava offrire ben altro, perché quel viale era divenuto la strada dell’alcol, almeno così si diceva. I ragazzi, però, riconquistarono il centro storico dove c’è una cantina a noi molto cara, detta “il Boss” e poi via via molti altri locali. Non credo che quei ragazzi facciano cose diverse da prima, corre voce, però, che spesso esagerano. L’ultima notizia riguarda alcuni di loro che, sere fa, si sono arrampicati sulle impalcature di qualche palazzo puntellato.

Lungi da me voler giudicare. Ma dobbiamo per forza riflettere su ciò che accade. La sera, quando fa buio, in centro storico ci sono solo loro, i nostri ragazzi. A volte penso cosa avrei fatto io se avessi avuto a disposizione un’intera città diroccata per tutta la notte! 

Il problema non è di semplice soluzione, ma come dissi già tempo fa, quella nostra città in attesa di essere ricostruita, deve essere di tutti, o almeno dobbiamo provarci. Cosa intendo? Intendo dire che noi adulti, o semplicemente meno giovani, saremmo ben felici di trascorrere qualche ora nella nostra città, non già per controllare i ragazzi, ma per ridare un senso a tutto ciò che ci sta accadendo. Insomma se avessimo un luogo, anche un cinema, dove andare alla sera, ci andremmo e poi, magari, potremmo farci un bicchiere anche noi, o una passeggiata, specie ora che le serate sono più miti. Se solo si volesse, si potrebbe organizzare un cinema all’aperto, o anche sotto il tendone di Piazza Duomo. Si potrebbe dar vita ad iniziative culturali al ridotto del Teatro, ed occuparlo tutte le sere. Inoltre, non ci giriamo intorno, se ci fosse qualcosa da fare anche nelle periferie, vecchie e nuove, le cose girerebbero in un altro modo, ne sono certa! I ragazzi Universitari lo dicevano anche prima: ora avrebbero la possibilità di stare assieme in luoghi sicuri costruiti apposta per loro, ma non c’è verso di renderli disponibili, problemi di gestione, dicono! E lì avrebbero tutto: sale studio, sale per proiezione, bar (eventualmente autogestito), palestra e chi più ne ha più ne metta. 

Si avvicina l’estate, di associazioni culturali ne abbiamo tante e potrebbero esibirsi nelle piazze, sulla scalinata di San Bernardino, ovunque. Se davvero qualcuno volesse, si potrebbero aprire alcuni locali agibili privati e destinarli ad attività “altre”, per tutti. Certo ci sono i costi da sostenere, ma nessun costo può giustificare il nulla. Il nulla che ci circonda, il nulla che trovano quei ragazzi e lo riempiono, come possono. Una città vuota tutta per loro; mi fa pensare a un ghetto, e scusate la metafora troppo spinta, ma lì li abbiamo relegati, lì dove volevano tornare, ma dove vogliamo stare anche noi.

Un città abbandonata, sporca, piena di erbacce, dove il degrado regna sovrano: quei ragazzi vivono il disagio, il disagio di tutti noi.

venerdì 1 giugno 2012

L'Emilia e L'Aquila





Un campo di erba medica

Non scrivo dell’Emilia perché tutti devono scrivere qualcosa! anzi; ho aspettato che il coinvolgimento emotivo si attenuasse, che la mente smettesse di tornare indietro ai famosi  "Trentotto secondi" di 1152 notti fa, che fossi in grado di guardare  quelle immagini; ho aspettato, per essere sicura di saper ascoltare quello che la gente di lì grida e piange.
Non so ancora se sono pronta, ci provo. 

Ho incontrato un imprenditore di quelle zone che ha perso il suo capannone industriale, un uomo di circa 70 anni, accanto sua moglie. Persone semplici, cordiali, i cui occhi somigliano troppo a quelli nostri: sguardi increduli, perduti, bagnati, che raccontano da soli il dramma della catastrofe. Poche parole scambiate, di nuovo sui quei terribili momenti, i loro ed i miei. E poi la consapevolezza di stare in una specie di “tempo zero”,  dove devi trovare la strada per ricominciare. Poche parole per dirci che ci terremo in contatto, che vogliono ascoltare le nostre voci di terremotati “in stato avanzato” e persino le scuse «Non vi abbiamo seguito abbastanza, sembrava una cosa così lontana da noi!»

Poi le parole decise e commosse di un altro imprenditore, giovane, ieri in TV: «Voglio rimanere qui, amo questa terra». E ancora l’appello televisivo di una giovane assessora: «Vogliamo che a ricostruire siano i nostri operai, i nostri ingegneri, la nostra gente; vogliamo rialzarci, lavorando».

Da terremotata di lungo corso dico a tutti quelli che possono sentire queste parole di farle depositare nel profondo della loro anima, per capirle e agire di conseguenza. L’Emilia, “terra laboriosa” chiede di ricominciare dal lavoro, da quello che hanno sempre fatto. Per questo sarò fiera, assieme agli aquilani, di pagare come tutti la tassa di scopo (accisa di 2 centesimi sui carburanti) e sarò ancora più felice di vedere ricostruite le fabbriche, le case e le chiese, con il massimo della sicurezza possibile. Da aquilana mi auguro che ci siano portavoce decisi, forti, con le idee chiare che non scendano a compromessi, che siano lungimiranti, che ascoltino la gente, i lavoratori, le madri e i padri, i bambini, i ragazzi, i vecchi. Perché quella terra è la loro ed anche di tutti noi, e sinceramente la affido a chi la ama, e saprà proteggerla.

Da aquilana, di nuovo, spero con tutta me stessa che l’Emilia possa essere di esempio all’Abruzzo, a noi e soprattutto a chi lo amministra, a chi ha goduto del consenso popolare per governare il capoluogo, affinché divengano davvero i portavoce delle istanze della popolazione in termini di trasparenza, di partecipazione, di ricostruzione sicura e accurata, di lungimiranza delle scelte, di visione di insieme, di rilancio economico, di ricostruzione sociale, di opportunità per i giovani. Che sappiano anche loro gridare con forza che le imprese locali, i tecnici locali, i giovani aquilani siano in “pole position” per rifondare questa città e questo territorio. Che abbiano la serietà di imparare dalle tante professionalità presenti sul territorio, che guardino con interesse alla cultura nel suo insieme, che abbiano l’umiltà di dire “ho sbagliato” quando necessario e di chiedere aiuto.
Siamo gente laboriosa e un po’ spigolosa, possiamo imparare da tutti, persino da quell’imprenditore che ho incontrato e mi ha raccontato che della terra ha fatto il suo mestiere; dapprima vendendo frutta, poi foraggi per animali che esporta in tutto il mondo. Di cosa si tratta? Di  erba medica essiccata. Ed ha soci in tutta Italia, persino in Abruzzo, a Chieti.

Far nascere nuovi imprenditori, facilitandoli nello start up.
Fare tesoro di ciò che abbiamo imparato tutti. Dagli ingegneri ai geologi, ai commercianti, alle singole persone: una rete di conoscenze che non deve andare perduta.

Ho preso contatti con alcuni Emiliani, ci vogliono lì, anche solo per raccontare i nostri tre anni. Per scambiare e cambiare. Perché la storia di questo territorio è nostra e dobbiamo fare lo sforzo di scriverla con l’impegno, le battaglie, la perseveranza.

Forza emiliani, forti e gentili. Forza L'Aquila, sempre!