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venerdì 13 febbraio 2015

Ho voglia di


Sono felice di ospitare una poesia della mia amica Clelia Scirri. Una donna di Tempera. Una donna terremotata. Una poetessa.

"Tempera-Paganica" di Lasacrasillaba - Opera propria.
Con licenza CC BY-SA 3.0 tramite Wikimedia Commons -



Ho voglia di paese,
delle sue strade anguste
che ti abbracciano,
dove si affaccia
la tua gente di sempre
che ti informa e ti racconta.
Ho voglia di case,
delle finestre socchiuse
da dove lo spiraglio
di profumi si espande.
Ho voglia di piazza
dove i ragazzi rumorosi
rincorrono una palla,
dove un cane randagio accasato
sta fermo tranquillo a guardare.
Ho voglia, col sole d’estate,
delle ombre allungate
del suono delle campane,
di coccodè di galline lontane.
Ho voglia di rose fiorite
A ridosso dei muri,
di aulenti balconi
con gerani e petunie.
Ho voglia di vedere
anziani e bambini vicini,
seduti a godersi il tepore,
fuori, sugli ultimi gradini.
Ho voglia di orme frettolose
Lasciate sulle viuzze innevate,
dell’odore buono del fumo
e delle voci ovattate.
Ho tanta voglia del mio paese
mentre osservo
la neve che cade!

mercoledì 2 luglio 2014

Storie di ordinaria follia






Mi va di raccontarvi una storia oggi, realmente accaduta. Potete starne certi, perché è accaduta a me.

Premessa: per ricostruire le nostre case, a L’Aquila, fino ad una certa data abbiamo usufruito del cosiddetto “contributo agevolato”. In soldoni, una volta approvato il progetto di ricostruzione e il relativo costo, al condominio, alla singola abitazione, a chiunque, venivano versati i soldi su un conto corrente nominativo e infruttifero, su cui pagare tutte le fatture (impresa, progettazione eccetera).  Ben presto i soldi della Cassa depositi e prestiti sono terminati e si è passati al cosiddetto “contributo diretto”. In soldoni (anche questa volta), l’impresa, il progettista eccetera, previa presentazione di vari SAL (stato avanzamento lavori) vengono liquidati direttamente dal Comune, se ha i soldi, ovviamente. Per evitare che i soldi stanziati venissero dispersi (almeno credo) il Comune, anche per i contributi diretti, ha dato la possibilità ai privati di aprire un conto corrente nominativo infruttifero su cui ha versato, appena disponibili, i soldi del contributo diretto. Per pagare le fatture, però, non si può andare direttamente in banca, come per il contributo agevolato, ma si deve far autorizzare ogni fattura dall’ufficio per la ricostruzione e, una volta approvata la spesa, si può andare in banca.

Orbene, per la parte privata del mio appartamento ho ricevuto poco più di 10.000 Euro di contributo diretto (lavori interni al mio appartamento); per i lavori comuni, invece, il condominio ha ricevuto l’agevolato. Sono stata una dei pochi “sfortunati” del mio condominio, ma, ecco, il Comune aveva finito i soldi dell’agevolato.

Pagamento prima fattura del progettista: la fattura viene consegnata assieme a tutta la documentazione all’ufficio ricostruzione dallo studio dell’ingegnere. Mi dicono “Ti telefoneranno quando è pronta”. Dopo un mese, non avendo ricevuto alcuna comunicazione, mi reco all’ufficio, di mercoledì che è l’unico giorno di apertura pomeridiana.
Arrivo 10 minuti prima dell’apertura e fuori c’è il delirio. Quando aprono le porte una massa informe di gente si catapulta a prendere il numero. Resto calma e quando arriva il mio turno mi trovo di fronte a questa macchinetta dove devi prendere il numero giusto. Quale sarà? Liquidazione contributi? Edilizia privata? Nell’incertezza li prendo ambedue e mi accorgo che qualcuno, nell’incertezza, li prende tutti (sono 6, mi sembra).
Attendo fiduciosa, mi chiamano per la “Liquidazione contributi” ed è il posto giusto. La signorina mi spiega che la mia fattura è bloccata perché manca un certo codice. Mi dice di farmi rifare la fattura e riportarla. Piena di buona volontà mi reco presso lo studio dell’ingegnere che prontamente mi stampa la nuova fattura. Il mercoledì dopo vado a consegnarla. Stesse scene deliranti. Stavolta non so se prendere il numero “Liquidazione contributi” o “Protocollo”. Li prendo entrambi. Mi chiamano al protocollo e ricevo una lavata di testa perché devo andare alla “Liquidazione contributi”. Dopo un po’ mi chiamano, spiego velocemente la situazione e la signorina mi protocolla la fattura (ohibò!) e mi dice di ripassare dopo una settimana.
Passate due settimane, mi reco all’ufficio, stavolta di martedì mattina e noto che non c’è il solito delirio. Prendo due numeretti “Liquidazione contributi” e “Traslochi”, giacché devo richiedere il rimborso del trasloco. Mi chiamano ai traslochi e, ahimè, non ho portato la copia del bonifico. Mentre la signorina dei traslochi mi spiega la procedura, mi chiamano a “Liquidazione contributi” e perdo il turno. Riprendo il numeretto e dopo 30 minuti mi chiamano. Spiego la situazione, e dopo un paio di minuti che non volevano finire mai, la signorina mi dice che la fattura è bloccata “E’ sbagliato il CUP”. Provo a dire che allora era sbagliato anche la volta precedente, ma mi viene risposto che, evidentemente, si erano fermati al primo errore.
Esausta mi ri-reco allo studio dell’ingegnere che mi ri-ristampa la fattura col primo codice e il CUP giusto. Nel frattempo stampo la ricevuta del bonifico traslochi ed oggi, mercoledì, ancora all’ufficio ricostruzione, in delirio come sempre. Prendo i miei due numeretti e, ormai esperta, aiuto gli altri a prendere quello giusto. Il trasloco è OK, la “liquidazione contributi” ha di nuovo protocollato la fattura che sarà pronta la prossima settimana.

Se tutto va bene, la porterò in Banca dove giacciono da mesi i famosi 10.000 Euro circa del contributo diretto e questa fattura è di poco meno di 2000 Euro: rabbrividisco a pensare alle altre fatture e ai miei prossimi mercoledì deliranti.

E mi chiedo: perché? Cioè perché devo fare da tramite tra il Comune e la Banca. L’impresa o il progettista potrebbero portare le fatture all’ufficio, che le controlla e le spedisce direttamente in banca.

Ecco io dovrei essere dematerializzata, come le file, i deliri e i mercoledì pomeriggio.
P.S. SOLIDARIETA’ AI TERREMOTATI TUTTI!

lunedì 2 giugno 2014

Back home






Sono tornata a casa: stanotte sarà la quarta nella quale dormirò nel mio letto. Dopo 1880 giorni di altra vita altrove.

Quando è arrivato uno dei furgoni che riportava da Antrodoco le mie cose e, nell’aprire il portellone, ho intravisto una piantana ed una sedia sgangherata, sono scoppiata a piangere.  Ho chiesto scusa, mi sono fatta forza ed ho cercato di dirigere il trasloco. Ma ogni battente che arrivava al quinto piano, ogni ripiano, ogni mensola, cuscino, scatolone, mi faceva sentire confusa. Mi ci sono volute quattro ore per tornare in me e riporre nel giusto ordine la mia casa. 

Montati i mobili è iniziato il turno degli scatoloni. Ogni libro, album di fotografie, lenzuolo, bicchiere, tovaglia, elettrodomestico, quadro, DVD, vocabolario, CD, lampada, scatola, raccolta, mi ha aiutato a ricostruirmi. Piano piano. 
Dapprima stupita nel vedere tutta quella vita ritornata, in un secondo momento mi ci sono immersa. Come un puzzle, pian piano ha ripreso forma la persona che sono sempre stata, attraverso l’affetto di quarant’anni trascorsi all’Aquila profondamente immersi nella mia adolescenza avezzanese. 

Non ascoltavo così tanta musica da cinque anni, non mi era sembrato che mi mancasse così tanto. Fino a cinque anni fa ballavo riordinando la casa ed oggi l’ho fatto di nuovo.

Ho lavato e stirato tutta la biancheria, ingiallita da più di 62 mesi di attesa;  il ferro da stiro scivolava su tutti i ricordi di corredi, acquisti, nascite e separazioni.
Ho riposto tutti i nostri libri conservati con cura: dal vocabolario di greco alla Divina Commedia a fumetti.
Ho accarezzato i letti dei miei figli: una delle camere sarà uno studio tra un po’, perché in cinque anni capita che i figli crescono e vanno via.
Ho un mare di pentole e piatti, neanche tanto belli, ma ancora con il profumo delle cene che preparavo per amici o delle pappe dei figli.

Mentre ascoltavo la musica del Boss mi è sembrato che questo periodo potesse riassumersi con “All or nothing at all”.  Non tanto per il significato delle parole del brano, ma per quello che mi sento di dire ora: «Ho tutto, prima non avevo niente.»

Si riassume così la vita di una famiglia terremotata, catapultata in men che non si dica in una vita virtuale incastonata in case tutte uguali, fornite di tutto il necessario per sopravvivere. Una vita alla quale non puoi ribellarti, perché sembri ingrata. Ma quei cinque anni trascorsi a 15 chilometri da qui, hanno lasciato un segno indelebile: non sono le rughe, il dolore, l’incredulità, ma la fatica di non spersonalizzarsi, di non dimenticarsi, anche se tutto spinge in quella direzione.
Sono al quarto giorno “after” e tutto il resto è lontano. Ci vorrà ancora tempo per elaborare tutto questo vissuto. Nel frattempo occorre ancora combattere per riavere una città, per ridarla a chi ancora aspetta di riannodare la propria vita.
Back home: sono felice. 

Inizia la mia quinta vita: la prima l'ho vissuta ad Avezzano, fino all'età di 18 anni. La seconda a L'Aquila, fino al 6 aprile 2009 alle ore 3,32, quando la terra ha tremato. La terza è cominciata il 6 aprile 2009 ed è durata fino al 13 febbraio 2010. La quarta è iniziata il 14 febbraio 2010 quando ho violato la zona rossa. La quinta è iniziata 3 giorni fa. Resto a combattere per vivere al sesta: con L'Aquila ricostruita.

domenica 25 maggio 2014

Matteo







Prima ancora di raccontare la felicità di tornare a casa dopo 5 anni, sento forte il desiderio di scrivere qualcosa su un’esperienza molto positiva che mi ha regalato il terremoto. 

Quando ero ancora in camper, la Protezione Civile ci obbligò ad un censimento. Era l’agosto del 2009 e nel bel mezzo della catastrofe, dovevamo scegliere dove andare: nel progetto C.A.S.E., in affitto oppure in autonoma sistemazione. Scelsi il progetto C.A.S.E. e contemporaneamente aggregai al mio nucleo famigliare uno studente fuori sede. Un amico dei miei figli. Matteo.

Abbiamo vissuto quasi cinque anni assieme. 

Ora è in camera che inscatola le sue cose. Abbiamo tutti un groppo in gola. 

Aveva poco più di 21 anni Matteo quando iniziò questa avventura. All’inizio qualche imbarazzo, poi via via una grande sintonia.
Io ho vissuto un po’ da studentessa fuori sede, lui un po’ da figlio adottivo. Abbiamo preso tanto da questo rapporto, è stata un’opportunità di crescita per tutti.
Ricordo serate bellissime, momenti silenziosi, curiosità reciproche, scambi culturali e culinari. Il vino di Miglianico. Le risate. La sua adattabilità, il suo affetto, la sua pacata gratitudine. Gli occhi neri che parlano da soli, la barba, la montagna, le bruschette. Ma più di tutto la discrezione, la generosità, una sensibilità fuori dal comune.
Ho imparato tanto da Matteo, sui rapporti interpersonali e su me stessa. Sono cresciuta, così come lui che stasera ha portato via una “carrellata delle sue cose (in foto).

Cosa diverrà questa esperienza non so. Ma stasera mi manca. E questa C.A.S.A. che ha contenuto cinque anni della nostra vita assieme, stasera è spoglia più che mai. La camera di Matteo e Riccardo mi pare immensa e tutti questi scatoloni mi angosciano.

Uno strappo, sì è uno strappo. Come quando un figlio va via.
È giusto così

«Torno domani a prendere il resto, poi rimbianchiamo assieme»
«La prima cena in via Angelo Colagrande sarà tutti assieme»
Non potrebbe essere altrimenti, Matteo.

lunedì 31 marzo 2014

L'Aquila anno V D.T.


L'Adorazione dei Magi, Gentile da Fabriano (1423). Firenze Galleria degli Uffizi





Anche quest’anno per il 6 aprile sentivo il bisogno di scrivere qualcosa. Ma ciò che mi veniva in mente era solo “cinque”, perché sono trascorsi cinque anni. Poi le parole e tutti i pensieri si fermavano e ne soffrivo. Non capivo. Forse le parole sono state scritte tutte. 

Sono stata a Firenze per il fine settimana e mi sono tornate alla mente le parole del mio amico Massimo Giuliani, di circa quattro anni fa, quando il nostro centro storico era tutto transennato e i cittadini tutti lontani: “Firenze devastata da un sisma di 6.3°.  
S. Maria Novella, Palazzo Vecchio e Palazzo Pitti sventrati e abbandonati da dieci mesi. Il centro storico, distrutto, resterà chiuso sine die. Poco male: sarà sostituito da decine di “new towns” modernissime con le fogne che scaricano nell'Arno. Metà dei cittadini ancora senza casa, negli alberghi dell'Argentario e della Versilia. La TV esalta il miracolo fiorentino”.

Ho visto Santa Maria Novella, Palazzo Vecchio e Palazzo Pitti in tutto il loro splendore. Ho visto i cittadini popolare tutte le strade ed ho pensato che Firenze sarebbe stata ricostruita, in fretta, dai migliori architetti, con le più innovative tecniche antisismiche. Non ne ho sofferto, ho pensato che è così che dovrebbe essere.

D’improvviso, ripensando “all’iperbole” del mio amico, mi sono ritrovata a visitare la città come se fosse stata appena ricostruita dopo una catastrofe: ho passeggiato a lungo per strade e vicoli senza quel senso di estraneità che, da cinque anni, mi accompagna ovunque vada. 

Mi sono ritrovata su Ponte Vecchio a rimirare le vetrine e la gente, ho scattato foto, tante, inutili, solo per il gusto di averle e continuavo a pensare come fosse stupendo vederlo ancora lì, “ricostruito” quel ponte. In realtà Ponte Vecchio lo vediamo ancora oggi così, perché i tedeschi, nel ’44, lo risparmiarono: abbatterono tutti i ponti sull’Arno, ma quello lo lasciarono intatto. Sembra fosse caro ad Hitler. 

Ponte vecchio e i bombardamenti:


In due giorni e mezzo ho visitato tutto il visitabile, estasiata. Gli Uffizi, Palazzo Pitti, Santa Maria Novella, Santa Croce, la cupola del Vasari, sono persino salita sul campanile di Giotto. La Sinagoga, San Miniato, Santo Spirito, OrsanMichele, San Lorenzo. Il quartiere San Frediano, il borgo di Santa Croce. Musei e botteghe artigiane, Piazzale Michelangelo e non ricordo più cosa.
Molti quadri nella galleria degli Uffizi portavano la scritta “Restaurati da…”, e mi piacevano più del solito: tutto ciò che è restaurato e/o ricostruito mi fa sentire bene. Spicca  “L’adorazione del Magi” di Gentile da Fabriano (prima foto), dove quei tocchi dorati riportati alla luce, riescono a catturare l’anima dei più distratti. Quando vivi in un paese ed in città ricche d’arte, quella ti entra nell’anima, anche se non arrivano turisti.

Nella Piazza di Santa Croce ho visto tantissima gente e mi è sembrato che fossero più felici del solito, come se quello spazio l’avessero appena riconquistato. E ne ho gioito: la piazza mi sembrava un regalo restituito alla umanità intera. In realtà, il 23 marzo 1944 una bomba esplose proprio a fianco della nota Basilica di Santa Croce, portando morte e distruzione. Come in altri pezzi di città: “il 25 settembre 1943 era un sabato, c’era il sole, non suonò l’allarme, ma i fiorentini videro gli aerei avvicinarsi. La lunga via Mannelli e le sue traverse vennero devastate, assieme ai viali e piazza della Libertà. Dall’inizio del 1944 la città fu devastata”.

I bombardamenti a Firenze (Seconda Guerra Mondiale)


Quando a Piazza del Duomo ho visto il Battistero circondato di impalcature, ho sussurrato: «Tranquillo, risorgerai anche tu».

Ho acceso in ogni chiesa una candela, così che anche in questa nuova Firenze “ricostruita” ci sia posto per le vittime del nostro terremoto. Non sono 309 le chiese di Firenze, ma per come sono intrise di bellezza, ne sono anche di più.

Insomma toltami di dosso quella estraneità, mista a invidia , tristezza e senso di inferiorità, mi sono sentita appagata. E mi sono sentita fiera. Di essere italiana.

Ora sono qui, L’Aquila. Nella città in attesa, un attesa lunga che ci sfianca; così tanto, che per sopravvivere dobbiamo volare con la fantasia e fingere. Persino che un’altra città bella come Firenze, possa essere la proiezione di quel che sarà il nostro futuro.

Ho pronto il mio cappotto pesante, quello che da cinque anni mi accompagna nella lunga notte fredda in attesa delle 3.32. Ci incontriamo di nuovo tutti in piazza.

Personalmente con la speranza di tornare ad essere fiera della mia città, a desiderare che lo siano tutti gli italiani. A volere che lo siano le 309 anime che con noi piangeranno quella notte.