Trentotto anni

 6 aprile 2047

Il Parco della Memoria nella mia città è bellissimo. Noi lo chiamiamo semplicemente Parco. E’ pianeggiante, poi discende a gradoni, giardini, orti e fiori e si arriva fino alla Fontana delle 99 Cannelle. Si affaccia sui monti ed è luminoso, silenzioso e sobrio. Non statue, ma solo una fontana che diviene luminosa proprio la notte del 6 aprile. Non vi sono bar, né altre strutture ricettive solo, nascoste, le toilettes di legno. Ci si siede sulle panchine, oppure si ascolta musica dal piccolo “anfiteatro” di legno e sassi. Si contano tantissimi alberi: mandorli, lecci, aceri e pini. Un boschetto di mandorli giapponesi ricorda un 9° Richter del 2011. I servizi elettronici ci sono, ma non si vedono. A diposizione di tutti uno schermo su cui scorrono le attività della città. Ogni 6 aprile i filmati d’epoca: il 2009.
Ci sono cresciuta in quel Parco ed ho imparato a rispettarlo con i racconti di mio nonno, uno dei tanti nonni che 38 anni fa avevano circa la mia età. Mi racconta delle case e dei palazzi che sorgevano qui: via XX settembre si chiamava, ora via 6 aprile. Delle persone che ci vivevano, dei crolli e le macerie. Degli errori del passato e della forza di ripensare l’abitare in una città ferita. Non fu facile destinare un’area così grande a Parco. Ci vollero anni, baruffe e soldi.
«Ma questo regalo, Maria, è stato un regalo di tutti. Non volevano rinunciare alle loro belle case in tantissimi, né volevano accontentarsi di un’altra sistemazione. Ma questo posto non era adatto per abitarci, vi trovarono persino le macerie del 1703. I nostri avi sapevano che lì la terra era inadatta e dovemmo impararlo anche noi», nonno mi dice di imparare, dal passato, dalla storia, dagli errori. E tutti noi, nipoti e pronipoti di una catastrofe, per ricordare abbiamo bisogno dei racconti dei nonni e dei bisnonni. Il perché del Parco è la nostra storia. Ogni albero ha un significato che non ricorda solo il sacrificio di tanti innocenti, ma soprattutto l’errore di non aver sempre studiato il passato. Trema ancora la terra qui, lo sappiamo, tremerà. Per non lasciare questa terra abbiamo bisogno di capire.
Quando sono nata, il Parco già c’era e ne abbiamo tutti condiviso l’evoluzione. Quando venne inaugurato, nel 2016, si sdraiarono sui prati i pannelli fotovoltaici che alimentavano l’illuminazione e tutti i servizi. Erano pannelli giganti ma poi, nel tempo, quelli vennero sistemati sui tetti sguarniti e al loro posto arrivarono quelli moderni, più piccoli, fatti di nanomateriali e via così, fino ad arrivare alle attuali quasi invisibili “retine” sui rami degli alberi. Nascosti, tutti gli accessi all’energia del sole, la stessa che alimenta la mia “superbike”. Perché andiamo in  bicicletta, ma L’Aquila è sempre in salita.
Si possono visitare i cunicoli, illuminati, che portano fino alla Basilica di Collemaggio: l’orgoglio di allora e di oggi. Con i giochi di luce del solstizio d’estate e i concerti tutto l’anno.
Il Parco stamane è affollato: c’è il sole ma fa freddo, come 38 anni fa. Noi, nipoti del terremoto, guardiamo con stupore i nonni e qualche bisnonno che tra musica e immagini ci indicano chi era questo e chi quello. E poi arriva il silenzio, quando qualcuno dice che il sisma si è portato via i nonni e i padri di allora, ma anche quelli di oggi.