Passeggiata in centro città, quella terremotata. Ieri mattina di buon’ora.
Svariate stradine aperte. Il solito silenzio, la solita erba, le macerie, le campane, le pietre. Ci sono da ascoltare solo i tuoi passi, in questa città. E si incontrano persone, come te, che senti vicine e le ascolti. Una giovane signora mi racconta la sua storia. La solita: ha perso tutto e la sua bella casa è abbandonata. Mi dice che se solo le avessero assicurato la metà dei soldi per ristrutturarla, lei già avrebbe cominciato. Mi indica il suo terrazzino e dalla finestra si vedono le volte che, col tempo, stanno venendo giù. Poi tristemente mi dice dell’ingiustizia della catastrofe che ha reso povero e disperato l’80% della popolazione aquilana e ricco il restante 20%. Si lamenta delle strumentalizzazioni dei movimenti cittadini e, infine, mi bacia, con affetto.
Poi torna il silenzio e lo smarrimento. Incontro il mio vicino di casa di sempre che, lucido e triste, mi dice la sua: “L’Italia va a rotoli, cosa vuoi che contino 60000 persone quando sta saltando tutto? Faremo come nel 1703, dobbiamo farcela da soli… in 50 anni”.
Mi inoltro in vicoli che non vedevo da non so più quanto tempo e sbircio, dalle finestre aperte, una vita che non c’è più. Avvolta dal silenzio.
Oggi 2 novembre alle 16.00 ho passeggiato nel mio nuovo paese fatto di C.A.S.E. e circa 2000 persone. Lo stesso silenzio. Di un insediamento che di temporaneo ha solo l’illusione di molti. Sui balconi di tutto: biciclette, armadi, giochi, ombrelloni, gazebo.
Sento una voce: “Giusi!!!”. E’ un mio collega. Abita qui da otto mesi e mai l’avevo incontrato.
Tornando a casa alzo lo sguardo e rimango senza fiato: le nostre montagne illuminano questa nuova vita coperta di silenzio (nella foto).
E il silenzio lo romperemo ancora una volta: il 20 novembre aspettiamo L’Italia qui, in questa città. Qui trovate il nostro appello.
L’Aquila ha una voce e ci sta chiamando, vi sta chiamando.
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