L'Aquila, anno IV dopo terremoto |
Ci siamo, è
il 6 aprile. E sono trascorsi 4 anni. E questo lo sanno tutti.
Una cosa è
certa: per quante ne possiamo aver passate durante questo quarto anno D.T., il
6 aprile arriva sempre, imperterrito.
Le
commemorazioni, via via che passa il tempo,
assumono significati più profondi. Sono giorni che mi preparo, che ci
prepariamo, ciascuno a suo modo: chi rispolvera vecchie foto, chi ricordi, chi
paure, chi lacrime. Sono giorni di “passione” questi, che cancellano qualsiasi
altra sensazione che non sia connessa ad un momento: le 3,32 di 1461 giorni fa.
Per
quest’anno non me la sento di riassumere ciò che è successo negli ultimi 366
giorni, anche perché meglio di me parlano le foto della mia città. Più che le
mie parole cito quelle di un bambino che domenica scorsa, era Pasqua, si trovava
in centro con i suoi genitori; era evidentemente la prima volta che veniva a L’Aquila
e, rivolgendosi alla madre, ha esclamato «Mamma, ma L’Aquila è proprio una
città distrutta!». Parole che rimbombavano tra i palazzi puntellati e
striscioni vari delle nostre manifestazioni. E fa eco a ciò che un altro
bambino disse tre anni fa: «Non pensavo potesse esistere una città fantasma
così grande».
E neanche me
la sento di ricordare quei terribili trentotto
secondi, scolpiti dentro di noi con la stessa forma. Che non è un numero,
3,32 o 6 o 309, né polvere, né lacrime, né ferita. E’ una ruga, un insieme di
rughe indelebili e visibili: attorno agli occhi, alle labbra, sulla fronte. Si
percepiscono ad ogni movimento facciale e, quindi, persino nella spensieratezza e la
gioia che, come per tutti, fortunatamente arrivano, anche in zona terremoto.
Il 6 aprile
è un giorno nel quale ci incontriamo e ricordiamo assieme, cosa c’è dentro quelle
rughe. Oltre la sofferenza e, ancora, l’incredulità.
Durante quest’anno
appena trascorso, abbiamo avuto un
“momento” simile di condivisione: era il 22 ottobre 2012 e un giudice, a
L’Aquila, emetteva una sentenza di condanna nei confronti di una commissione
appositamente riunitasi a L’Aquila, 4 anni fa, per valutare il rischio che si stava
correndo con lo sciame sismico in atto. E ne uscì una rassicurazione. Uno dei fattori di rischio venne sottovalutato.
E il filo che corre tra vita e morte si spezzò.
Impressiona
ancora ricordare, per chi è ancora vivo, la scossa precedente quella
distruttiva, dopo la quale rimanemmo in casa, quasi tutti: era tutto normale.
E così, dopo
essere stati ingrati, lagnosi, sfaticati, quest’anno siamo divenuti anche
stregoni.
La storia di
questi 366 giorni può essere riassunta
in un’ aula di tribunale, poi derisa e vilipesa.
E in tutti i
giorni inutili che continuiamo a passare in tribunale, accusati di aver varcato
la zona rossa, di aver manifestato, di esserci uniti. Tutti attorno ad una
città che ha perduto l’anima.
Ma non la dignità, intesa come identità morale di un gruppo di
persone: un valore intrinseco e inestimabile di ogni essere umano, pur se
terremotato.
Non il
rispetto, quello che meritano gli aquilani, gli emiliani, i genovesi e tutti
coloro che hanno subito eventi catastrofici: che inizi la ricostruzione all’insegna
del ricordo, del rispetto, della dignità. Della sicurezza.
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